domenica 29 luglio 2018

Da grande voglio fare... l'impiegato pubblico: commento a un sondaggio

Un mio commento su La Nuova Bussola Quotidiana in ordine alle preferenze di lavoro degli italiani

"Voglio fare il posto fisso", le non-ambizioni degli italiani
Marco Ferraresi
Un sondaggio rivela che gli italiani ambiscono soprattutto a fare l'impiegato pubblico, indipendentemente dalla professione. L'aspirazione maggiore è quella di un posto fisso con stipendio sicuro. Comprensibile per i tempi che corrono. Ma il quadro è preoccupante, perché vuol dire che lo spirito di iniziativa lascia il posto alla rendita.

Quando chiediamo a un bambino che cosa vorrebbe fare da grande, vediamo i suoi occhi brillare mentre afferma, convinto, “l’astronauta”, “il poliziotto”, “il calciatore”, “il pilota” o altro ancora. Lasciamo ora che il pargolo cresca, attendiamolo al varco dell’età adulta e, riproponendo la stessa domanda, chiediamoci cosa potrebbe perlopiù rispondere. Non c’è dubbio: l’impiegato pubblico. Si badi, non specificamente il magistrato, l’ufficiale dell’esercito, l’ispettore, ma l’impiegato pubblico. Come se un aspirante musicista dicesse semplicemente che amerebbe, non suonare il violino, il flauto o il pianoforte, ma “suonare” purché sia.
A mostrare le preferenze e le ambizioni dei nostri concittadini è un recente sondaggio di SWG dedicato a “gli italiani e il lavoro”. Esso ci rivela che il 28% di un campione di mille persone maggiorenni desidera diventare un pubblico dipendente. E il dato è in crescita del 13% rispetto al 2016. Significativamente, al secondo posto si colloca il lavoro di insegnante (al 12%). Seguono l’ambito informatico (11%), della comunicazione digitale e del social marketing (11%), il lavoro imprenditoriale (10%), la figura del dirigente d’impresa (10%), il designer (10%), il bancario (9%), il commerciante o l’artigiano con un proprio esercizio (8%), le professioni ordinistiche di avvocato, medico, commercialista o notaio (8%), il ricercatore universitario (8%), il lavoratore di una cooperativa sociale o educativa (8%).
Le risposte si comprendono meglio alla luce degli esiti di un altro quesito, posto agli stessi intervistati e relativo alla tipologia contrattuale che, potendo, presceglierebbero: il 49% ritiene “fondamentale” un contratto di lavoro (dipendente) a tempo indeterminato; il 39% considera tale soluzione importante, ma non prioritaria; il 5% la reputa invece poco importante e solo il 7% si dice non interessato al contratto a tempo indeterminato.
Provando a interpretare questi dati, si possono formulare due ordini di considerazioni. Anzitutto, si direbbe, emerge un desiderio di stabilità occupazionale e dunque reddituale. Questo infatti sembrano dirci sia, evidentemente, la metà degli intervistati in ordine alla preferenza per il contratto a tempo indeterminato; sia l’opzione per l’impiego pubblico, che è l’emblema in Italia di un rapporto di lavoro solido, ai limiti, nei fatti, della inamovibilità. Ciò ben si potrebbe spiegare in ragione della precarietà professionale socialmente percepita, confermata dall’ingente quantitativo di contratti a tempo determinato stipulati negli ultimi anni e superiore a quello dei contratti a tempo indeterminato, come risulta dalle statistiche ufficiali. Dal che si comprende, anche, come mai la preferenza dei cittadini per l’impiego pubblico sia significativamente aumentata dal 2016 ad oggi.
L’interpretazione qui suggerita apparirebbe confermata da un ulteriore dato offerto dal sondaggio: per poter costruire il proprio futuro esistenziale, secondo il 67% degli intervistati è importante, appunto, “cercare un lavoro stabile”, il 6% in più rispetto al 2016. Sono soprattutto i giovani tra i 18 e i 24 anni (l’81% tra di essi) a pensarla in questo modo. E non si può negare che di principio la continuità occupazionale, ancor più se si tratta di un rapporto di lavoro dipendente, garantisce non solo quella reddituale, ma anche quella contributiva in vista della pensione e quella professionale. La costante applicazione delle conoscenze e delle esperienze, infatti, è precondizione per mettere a frutto le capacità acquisite e conseguirne di nuove. Inoltre, l’incertezza lavorativa non concorre a creare le condizioni ideali per l’assunzione di vincoli personali stabili quali il matrimonio, la conseguente formazione di una famiglia e le scelte procreative, o anche per decisioni patrimoniali importanti come l’acquisto di una abitazione.
Nondimeno, il sondaggio si potrebbe pure prestare a una seconda interpretazione. Proprio la generica opzione per la categoria del pubblico dipendente – ma anche, volendo, per il lavoro di insegnante, se riferito alla scuola pubblica – suggerisce ulteriori considerazioni. La schiacciante preferenza (indifferenziata) per il pubblico impiego – ancor più se ad essa sommiamo quella per l’insegnamento, nel senso detto – sembra dirci che l’aspetto reddituale prevalga su quello professionale, che sia più importante guadagnare che fare, più conveniente avere che essere. A meno infatti di ritenere che si voglia diventare pubblici dipendenti per servire esclusivamente la Nazione, secondo le pur solenni parole della nostra Costituzione, vi è il rischio che simile “passione” per la pubblica amministrazione sia più che altro determinata da dignitose remunerazioni, ritmi di lavoro non assillanti e, in definitiva, rapporti di lavoro garantiti sino alla pensione, essendo il licenziamento un fenomeno, in tale ambito, piuttosto raro (nonostante i giri di vite sulla responsabilità disciplinare, di cui alle riforme legislative degli ultimi anni). La stessa figura dell’insegnante – che dovrebbe fare tremare i polsi, al solo pensiero di quanto sia delicata la funzione educativa – si presta facilmente ad essere associata, semplicemente, alla possibilità di beneficiare di orari di lavoro ridotti e lunghi periodi di ferie.
Se così fosse, il quadro sarebbe preoccupante. Vorrebbe dire che lo spirito di iniziativa e la propensione al rischio (razionale); la voglia di mettersi in gioco, di far fruttificare i talenti e il senso profondo della fatica umana; che tutto ciò, in definitiva, non appartiene più al nostro Paese. L’Italia si avvierebbe allora verso un sicuro declino, non solo economico, ma pure culturale e spirituale.
Naturalmente, si potrebbe dire che la seconda interpretazione sia maliziosa. Di certo, dovremmo tutti rallegrarci di poter constatare come essa, in realtà, sia infondata. Tuttavia, se leggiamo il sondaggio di SWG insieme ad altre rilevazioni pubbliche in tema di lavoro degli italiani, i sospetti restano. Si consideri ad es. un’indagine di Eurostat (l’ufficio statistico dell’Unione europea) di quest’anno: per essa, il 60% dei giovani disoccupati italiani (contro il 50% della media dell’Ue) non è disposto alla mobilità territoriale, cioè a cambiare città, per reperire una occupazione: solo il 7% sarebbe disponibile a trasferirsi in altro paese europeo, il 13% fuori dall’Unione e il 20% in altra località italiana. Ma la maggioranza, appunto, non muterebbe né città né Stato. L’Italia, nella classifica, è così al sesto posto in termini di propensione alla (im)mobilità, dietro a Malta, Olanda, Cipro, Romania e Danimarca. Il che significa, come, in non pochi casi, il disagio di un mutamento del domicilio sia considerato superiore rispetto alla carenza di lavoro. Non propriamente un segnale di intraprendenza.
Un altro dato che fa riflettere è quello relativo agli skill shortages, cioè alle carenze professionali rispetto alla manodopera richiesta dalle imprese: se è vero che in Italia i dati della disoccupazione, specialmente giovanile, sono allarmanti, le periodiche indagini di Unioncamere svelano la presenza di giacimenti occupazionali non sfruttati. Alcuni posti di lavoro, certo, richiedono competenze particolarmente qualificate e corrispondenti titoli di studio (come nell’ambito dell’ingegneria elettronica e dell’informazione); ma restano costantemente scoperte pure posizioni ad es. di macellaio, elettricista, idraulico, cuoco, panificatore e molte altre. Le imprese disposte ad assumere, per tali qualifiche, vi sono: mancano tuttavia i lavoratori. A tal proposito, vi è da domandarsi se tutto dipenda dall’inefficienza dei servizi per l’impiego nel mettere in contatto la domanda e l’offerta di lavoro; dalla inadeguata programmazione dell’offerta scolastica e formativa rispetto alle condizioni e alle necessità del mercato del lavoro; o, anche, se non vi siano mestieri semplicemente considerati faticosi, negletti e dotati di scarso appeal. Ribaltando un’espressione popolare: piuttosto che niente, meglio niente.
Da ultimo, non si può fare a meno di ricordare che il partito più votato nell’ultima tornata elettorale politica, il Movimento 5 Stelle ora partito di governo, ha tra i punti qualificanti del suo programma l’estensione del reddito di inclusione (impropriamente chiamato reddito di cittadinanza) introdotto dal precedente esecutivo. Si tratta di una misura pericolosa, non solo perché costituisce una costosa forma di mantenimento a carico della spesa pubblica in assenza di lavoro, ma anche perché, correlativamente, può scoraggiare la ricerca di lavoro e favorire semmai quello irregolare. Il successo del Movimento 5 Stelle sta a significare, almeno in parte, che una quota importante dell’opinione pubblica consideri positivamente la previsione di un introito monetario mensile pur in assenza della controprestazione lavorativa. Ma, ce lo ha ricordato più volte anche il regnante Pontefice, senza lavoro non c’è dignità, sicché vi è bisogno non di un reddito per tutti, ma di lavoro per tutti.
In conclusione, vi è da chiedersi cosa ne sia, nella percezione comune, del principio primo della nostra Carta fondamentale elaborato dai Padri costituenti, secondo cui l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Forse, anche oggi, molti preferirebbero che essa possa fondarsi su una posizione di rendita. Che, in definitiva, non può che essere una posizione di privilegio.

lunedì 23 luglio 2018

Sergio Marchionne e il diritto del lavoro

Un mio commento sulla figura di Sergio Marchionne, su La Nuova Bussola Quotidiana di oggi


Il nuovo modo di vivere il lavoro: l'eredità di Marchionne

di Marco Ferraresi

Nel momento in cui si scrive, le condizioni di salute di Sergio Marchionne, ricoverato alla fine di giugno in un ospedale di Zurigo per un’operazione chirurgica alla spalla e per la successiva convalescenza, sono definite gravi, se non irreversibili. Al capezzale dell’ormai ex amministratore delegato di Fiat-Chrysler sono presenti i familiari, mentre i dettagli sul suo stato fisico – il cui radicale peggioramento ha costituito per l’opinione pubblica un fulmine a ciel sereno – sono circondati da una giusta riservatezza.
La sofferenza sembra così entrata con prepotenza nella vita di un uomo che, nella dimensione pubblica, è sempre apparso come forte, infaticabile, al punto – si dice – da riservare il riposo ai viaggi transcontinentali in aereo, per raggiungere i vari stabilimenti di un impero economico che ha contribuito a creare, quale vertice di uno dei principali gruppi societari produttori di autoveicoli. Un dolore improvviso che in una prospettiva meramente umana lascia in chi lo stima personalmente, come afferma il presidente di Fca John Elkann, “un senso di ingiustizia”. Sergio Marchionne sta dunque percorrendo in questi attimi una dolorosa via della croce: merita, meriterebbe solo per questo il rispetto di tutti (anche da parte di chi lo considera un nemico sindacale), insieme alla preghiera cristiana in favore suo e a sostegno di chi gli è accanto.
Nel frattempo, si è resa necessaria la sua sostituzione nei ruoli ricoperti in Fca, Ferrari e Cnh Industrial: i successori ricevono un’eredità gestionale impegnativa anche solo per il carisma, ineguagliabile, del dirigente italo-canadese. Il gruppo sembra aver optato per figure interne, così da garantire anzitutto continuità al lavoro svolto dal predecessore. L’era Marchionne, per le società da lui dirette, volge pertanto al termine ed è normale che si apra una legittima discussione sui risultati generali della sua gestione, che in queste ore si va appuntando sui profili più squisitamente contabili e finanziari, su quelli relativi alla qualità del prodotto industriale e su quelli sindacali e del lavoro.
Quanto ai successi di carattere economico, occorre ricordare come Marchionne abbia raccolto nel 2004 una Fiat sull’orlo del definitivo collasso, per salvarla e rilanciarla. Consapevole del fatto che la competizione internazionale faceva dei confini italiani un ambito troppo ristretto per un prodotto quale l’automobile, ha realizzato un’operazione straordinaria: l’acquisizione del colosso statunitense Chrysler (pure in crisi) da parte di Fiat, guadagnandosi l’ammirazione dei presidenti Obama e Trump. Qualcuno lamenta come, in seguito a ciò, il baricentro del gruppo si sia sbilanciato all’estero. Ma, per un verso, è naturale che le diverse dimensioni dei mercati spingano a privilegiare aree che garantiscono una maggiore espansione; per un altro, resta, ancor oggi, affatto scontata la scelta di una grande multinazionale di mantenere una pur significativa produzione in un Paese, come l’Italia, che quanto a fisco, burocrazia, tempi della giustizia e clima sindacale, non offre sempre le condizioni che rendono il territorio attrattivo per l’insediamento industriale. E a Marchionne andrebbe piuttosto il ringraziamento per aver continuato, nonostante tutto, a scommettere sull’Italia e i marchi italiani.
Quanto alla qualità delle vetture, gli analisti di settore discutono sui presunti ritardi di Fca rispetto alle nuove frontiere della produzione. Marchionne avrebbe sì conquistato la fiducia (e il prestito) del governo statunitense per l’acquisto di Chrysler anche grazie al favore del presidente Obama per tecnologie a minor impatto ambientale, esportate per l’appunto dall’amministratore italiano negli Usa. Ma avrebbe per contro ritardato l’ingresso della casa automobilistica nel mercato delle auto ad alimentazione elettrica, che sembra riguardato con prudenza anche nel recente piano industriale. Parimenti, avrebbe mantenuto un atteggiamento tiepido nei confronti dei sistemi di automazione della guida, che nondimeno appaiono come l’avanguardia della tecnologia automobilistica. Può darsi che su queste strategie abbia prevalso un (apprezzabile) contegno pragmatico e anti-ideologico, in un contesto culturale in cui, da un lato, proliferano ricette sui pericoli ecologici globali, reali o presunti; dall’altro, si tende a confidare nella tecnologia sino al punto da ritenerla sostitutiva del controllo e della responsabilità umana. Su questi e altri profili del business di Fca – la scelta dei marchi da promuovere, i modelli, le linee, ecc. – ovviamente il dibattito specialistico è aperto e il futuro potrà dare ragione o meno di alcune tra le scelte di Marchionne. Resta, in ogni caso, il fatto di un’azienda florida che in quattordici anni ha avuto una espansione impensabile: il che dovrà pure significare come, nel complesso, anche il prodotto sia stato generalmente apprezzato.  
Sul piano delle relazioni sindacali e del lavoro, va dato atto al dirigente di origini abruzzesi di scelte coraggiose, che gli sono valse critiche spesso ingiustificate e talora pesanti insulti (si pensi alla macabra satira che ha comportato per gli autori il licenziamento, definitivamente confermato di recente dalla Cassazione). Fortunatamente, la sua personalità caparbia ha portato a non considerare le une né gli altri. Il che da un lato ha permesso, come accennato, il mantenimento degli stabilimenti in Italia; dall’altro, ha offerto un esempio incoraggiante del fatto che pure in Italia, seppure con fatica, si possano adottare, a diritto vigente, prassi di relazioni industriali innovative contemperando le esigenze datoriali e dei lavoratori.
In primo luogo, egli ha rotto il tabù dell’unanimità sindacale. Marchionne ha dimostrato che, quando si ha un mano un piano industriale serio, si può procedere con gli interlocutori sindacali che si rendano disponibili. L’ad della Fiat, per avere sottoscritto il contratto collettivo del gruppo senza la firma della Fiom-Cgil (la principale organizzazione sindacale del settore metalmeccanico), ha dovuto affrontare un intenso contenzioso giudiziale. Da esso non è sempre riuscito vincitore. Ma il contratto (approvato dai lavoratori nei referendum aziendali) nel suo complesso ha retto, è stato rinnovato nel 2015 ed è diventato un esempio della possibilità, anche in Italia, di relazioni sindacali collaborative all’interno di un grande gruppo industriale.
In secondo luogo, egli ha dimostrato che in alcuni casi di un contratto collettivo nazionale si può (e forse si deve) fare a meno. Quando nel 2011 Confindustria si impegnò con le confederazioni sindacali dei lavoratori a non sfruttare le potenzialità dell’art. 8, d.l. n. 138/2011 (varato dal governo di centrodestra), che amplia la potestà regolativa degli accordi aziendali e territoriali rispetto alla legge e al contratto nazionale, Marchionne non ci pensò due volte. Prese carta e penna e comunicò al Presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, il suo recesso: un duro colpo, anche di immagine, per la principale associazione datoriale italiana. Il ragionamento del più noto manager italiano era molto semplice: le attuali condizioni del mercato talvolta impongono nei singoli contesti aziendali regole del lavoro più flessibili, che non è opportuno, per nessuno, conculcare a livello nazionale.
La vicenda Fiat ha per questo avuto l’indubbio pregio di rilanciare sul piano politico il dibattito – davvero non più rinviabile – sulla rappresentatività sindacale, l’efficacia soggettiva del contratto collettivo, il ruolo del contratto aziendale, per realizzare una democrazia industriale con regole certe e più efficienti.
Sarebbe poi lungo soffermarsi su altri profili di interesse del contratto collettivo di Fca: dalle clausole di tregua sindacale, per contenere il conflitto entro alcuni limiti, al sistema di controllo e sanzione dell’assenteismo ingiustificato (altro male delle relazioni di lavoro italiane); dal sistema di inquadramento professionale dei lavoratori all’organizzazione dell’orario di lavoro; dalle regole sulla sicurezza al salario di produttività, con la fissazione di indici economici di sito industriale e di gruppo, al cui raggiungimento sono erogate quote del premio di risultato, aggiuntive rispetto al salario di base.
Nel 2010 uno dei dirigenti della Fiom, Giorgio Cremaschi, parlò del contratto in questi termini: “Il 2 ottobre 1925 Mussolini, la Confindustria e i sindacati corporativi fascisti firmavano a Palazzo Vidoni un accordo che cancellava le elezioni delle commissioni interne. L’accordo di Mirafiori che cancella le elezioni delle rappresentanze aziendali è, da allora, il più grave atto antidemocratico verso il mondo del lavoro”. Altri parlarono di un contratto “incostituzionale” e, in ogni caso, di un grave vulnus ai diritti dei lavoratori. Nel 2016 il leader del medesimo sindacato, Maurizio Landini, ha dovuto ammettere che “nessuno nega che la Fiat, prima dell’arrivo di Sergio Marchionne, fosse a rischio di fallimento e oggi no. E nessuno vuole negare le qualità finanziarie del manager. Di tutto questo noi siamo contenti”.
A questo uomo, che si vanta del padre carabiniere e dei valori di onestà e spirito di servizio che “l’uniforme a bande rosse” esprime; che preferisce uno stile meno appariscente, perché l’attenzione sia concentrata sulle opere da compiere; che si preoccupa che gli ambienti di lavoro siano decorosi e consoni alla dignità dei prestatori; a quest’uomo, dunque, è da augurare di affrontare questo momento della vita con il medesimo coraggio con cui si è dedicato al suo lavoro.

venerdì 20 luglio 2018

Treccani, Libro dell'Anno del Diritto 2018

E' stato pubblicato il Libro dell'Anno del Diritto 2018 della Treccani (qui una breve presentazione): a pag. 307 ss. il mio contributo sul lavoro agile

giovedì 19 luglio 2018

Slide del convegno di aggiornamenti di diritto del lavoro

Qui le slide del convegno del mese scorso di "aggiornamenti di diritto del lavoro", con relazioni su: controlli e privacy, giurisprudenza sui licenziamenti dopo il Jobs Act, questioni di onere della prova, sindacato comparativamente più rappresentativo

martedì 17 luglio 2018

Reddito di cittadinanza? Dubbi e perplessità

Qui un mio intervento, di taglio divulgativo, sul tema del reddito di cittadinanza, pubblicato sul mensile "Servi della Sofferenza". Seguiranno interventi di carattere tecnico-giuridico

venerdì 6 luglio 2018

Ancora sul "decreto dignità"

Intervengo ancora sul "decreto dignità" con l'editoriale odierno de La Nuova Bussola Quotidiana

Non si crea lavoro a colpi di decreti. Serve un rilancio

Decreto Dignità: si ha l’impressione che, ancora una volta, si utilizzi in maniera distorta il diritto del lavoro. Sovraccaricare questa materia di troppe aspettative porta nella direzione sbagliata e contribuisce a perdere di vista le questioni più serie. Cioè: come è possibile favorire l’occupazione? Per la quale occorre un rilancio economico.

Il decreto legge varato dal Consiglio dei Ministri il 2 luglio 2018, principalmente ispirato dal Ministro del lavoro Luigi Di Maio, reca un titolo singolarmente impegnativo: “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”. Dalle dichiarazioni rilasciate alla stampa, l’intento è di “licenziare il Jobs Act”, combattere il precariato colpendo l’abuso dei contratti flessibili, evitare l’utilizzo fraudolento di sussidi economici per poi delocalizzare all’estero l’attività. Vediamo se le norme del decreto appaiono idonee a raggiungere gli obiettivi.

Si può anzitutto escludere che il provvedimento costituisca un sovvertimento del Jobs Act. Questo, infatti, consiste di otto decreti legislativi, emanati in seguito alla l. n. 183/2014. Il testo governativo appena approvato, invece, incide su singoli aspetti di soli due decreti: il n. 23 del 2015 sui licenziamenti e il n. 81 del 2015 sui contratti di lavoro.

Quanto ai licenziamenti ingiustificati, l’indennizzo minimo per i lavoratori è ampliato da 4 a 6 mensilità retributive; quello massimo, è portato da 24 a 36. Mentre si tratta di variazioni sostanzialmente irrilevanti per le imprese di grandi dimensioni, sono importi impegnativi per quelle che impiegano 16 dipendenti o poco più. Occorre poi considerare che la legittimità del licenziamento dipende da valutazioni del giudice necessariamente discrezionali, perché fondate su norme generali (la sussistenza della “giusta causa” o del “giustificato motivo”). Non sembra si tenga conto, dunque, della possibile disparità di condizioni economiche tra imprese e imprese, specie se si considera che nel nostro tessuto produttivo sono prevalenti quelle medio-piccole.

Quanto ai contratti di lavoro, si restringe la possibilità di utilizzo del contratto a tempo determinato, la cui durata massima legale non potrà superare i 24 mesi (tra il medesimo datore e il medesimo lavoratore). Superati i 12 mesi, il contratto dovrà comunque essere giustificato da ragioni produttive di natura temporanea.

Sorgono spontanee due domande. La prima: è consapevole il governo del fatto che questo farà felici soprattutto gli avvocati? Infatti, ogni qual volta il lavoratore non verrà stabilizzato dal suo datore di lavoro, probabilmente introdurrà un contenzioso giudiziale per accertare: a) se la ragione scritta nel contratto sia stata formalmente ben redatta; b) se sussistesse in concreto; c) se fosse di natura temporanea. Questioni note a chi conosce la giurisprudenza formatasi sulle causali del contratto a termine, prima che fossero abolite nel 2014.

La seconda domanda: davvero il governo ritiene che, dando una stretta ai contratti a termine, si potrà favorire il lavoro stabile? Non è più probabile che accada: a) che il datore non assuma; b) utilizzi modalità alternative e meno garantiste (co.co.co., partite iva); c) scelga la strada del lavoro sommerso? Occorre domandarsi se, nelle presenti condizioni del mercato, una normativa più rigida non determini una perdita di occasioni di lavoro.

Quanto poi alla somministrazione di lavoro a termine, la cui disciplina viene in sostanza equiparata a quella del contratto di lavoro a tempo determinato, si dimentica che le agenzie di somministrazione svolgono anche una funzione di intermediazione tra la domanda e l’offerta di lavoro. L’apposizione di vincoli eccessivi, in questa fattispecie, rischia di depotenziarne la capacità occupazionale.

Quanto all’abuso degli incentivi, si condivide il giudizio espresso su questo sito da Giuseppe Sabella: fermo restando che l’intento del governo è apprezzabile, “se dimentichiamo di rendere più attrattivo il terreno su cui un investitore scommette, non facciamo il bene del lavoro. Spesso le aziende che delocalizzano lo fanno per tasse troppo alte, per troppa burocrazia, per mancanza di infrastrutture e per un costo eccessivo dell’energia”.

Si ha l’impressione che, ancora una volta, si utilizzi in maniera distorta il diritto del lavoro. Sovraccaricare questa materia di troppe aspettative – nel corso degli ultimi decenni lo si è fatto spesso – porta nella direzione sbagliata e contribuisce a perdere di vista le questioni più serie. La principale delle quali, in materia, forse è questa: come è possibile favorire l’occupazione? La risposta più ragionevole è che, a tal fine, occorre un rilancio economico che determini la creazione di posti di lavoro. Ma allora le risposte non possono consistere nel ritocco di qualche comma o nel dare nomi altisonanti ai decreti. Le risposte sono altre: incremento demografico, attrattività del territorio, riforma fiscale, abbattimento dei tempi della giustizia, efficienza delle infrastrutture e della pubblica amministrazione.

Tutto ciò che, insomma, dovrebbe formare oggetto di un vero piano industriale. E’ questo lo sforzo richiesto a un governo che ambisca a parlare di dignità del lavoro.

giovedì 5 luglio 2018

E' davvero un "decreto dignità"? Mia intervista a La Provincia Pavese

Da La Provincia Pavese, 5 luglio 2018, pag. 3

«Precari, la rivoluzione è solo annunciata»
Il giuslavorista Marco Ferraresi: «Cambiare le norme non basta, soltanto lo sviluppo garantisce il lavoro di qualità»

Stefano Romano, Pavia

La rivoluzione del lavoro non si fa ritoccando le norme sul precariato, ma rilanciando lo sviluppo. E il “Decreto dignità”, come lo hanno definito il presidente del consiglio Giuseppe Conte e il ministro del lavoro Luigi di Maio, non è né una rivoluzione, né il provvedimento che affonda definitivamente il Jobs Act dell’era Renzi. Marco Ferraresi, ricercatore della facoltà di giurisprudenza dell’università di Pavia, specializzato in diritto del lavoro, è «perplesso» sugli effetti che il Decreto dignità potrà avere sul miglioramento delle condizioni dei lavoratori precari, ma è certo che non si tratta dell’addio definitivo al Jobs Act.

Professore, perché sostiene che il Decreto dignità non supera definitivamente il Jobs Act?
«Perché il Jobs Act è articolato in otto punti e il decreto dignità ne tocca soltanto due e in maniera parziale. Cambia alcune norme relative ai contratti a tutela crescente, aumentando gli indennizzi per i licenziamenti senza giusta causa portando l’indennità dovuta ai lavoratori da 24 a 36 mesi di stipendio; e modifica il codice dei contratti limitando da 36 a 24 mesi la possibilità di assumere a termine riducendo a 4 da cinque le proroghe possibili. Viene reintrodotta inoltre la cosiddetta causale, ovvero l’obbligo di giustificare con una esigenza di temporaneità, ogni assunzione a termine successiva alla prima».

Sembrano comunque interventi migliorativi per chi ha un lavoro precario.
«Ma non è detto che abbiano gli effetti sperati. Irrigidire i parametri per le assunzioni a termine rischia di spingere le aziende a centellinare le assunzioni in presenza di necessità temporanee di aumento della manodopera. Ma soprattutto la reintroduzione delle causali rischia di avviare un boom delle cause di lavoro. Semplificando: se un lavoratore a termine intravvede la possibilità di far causa per l’assunzione a tempo indeterminato, e vincerla, all’impresa che gli rinnova un contratto a termine con una causale traballante, quasi certamente la farà. E anche questa possibilità aumenta il rischio che le imprese tornino ad essere eccessivamente prudenti nell’assumere dipendenti a termine in caso di esigenze produttive particolari e limitate nel tempo».

Il decreto dignità introduce limiti anche nel lavoro somministrato parificandolo di fatto alle assunzioni a termine.
«E anche in questo caso a mio avviso non è una buona scelta. Il lavoro somministrato, ovvero il ricorso da parte delle aziende a lavoratori “in affitto” da agenzie specializzate costa di più rispetto alle assunzioni a termine proprio perché l’azienda deve pagare all’agenzia l’intermediazione. È un meccanismo utile perché sopperisce ai limiti che, in Italia, i centri per l’impiego hanno nel far incontrare domanda e offerta di lavoro. Porre vincoli a questo tipo di servizio è di fatto un passo indietro rispetto a quanto fatto finora».

Qual è, allora, la ricetta per far crescere l’occupazione e migliorare la qualità del lavoro?
«Lo sviluppo. Agire sulle regole del lavoro deve essere il secondo passaggio: prima deve venire il lavoro su un piano industriale che faccia crescere l’economia. E serve un lavoro serio sul fisco per abbassare le tasse alle imprese, sulla giustizia per tagliare i tempi e sulle infrastrutture per abbattere i costi».